Sinossi a cura di Aldo Onorati
Beatrice spiega al Pellegrino il motivo della gran luce che sprigionano i suoi occhi: deriva dalla perfetta visione del Creatore. Quindi, passa a parlare della possibilità o meno di permutare il voto. La risposta è no, perché con esso l’uomo si lega a Dio tramite il patto – inscindibile e incommutabile - che obbliga il libero arbitrio (“Lo maggior don che Dio per sua larghezza/ fesse creando, e a la sua bontate/ più conformato, e quel ch’e’ più apprezza” –v. 19-21) a obbedire alla promessa fatta al Signore: e fatta di propria volontà. Che si può offrire di equiparabile? Scambiare la sostanza di un voto equivale a realizzare il bene con un furto. “Però, tu puoi pensare che io abbia mentito, dato che la Chiesa non solo permuta i voti, ma talvolta li toglie del tutto. Ora, trattandosi di un cibo difficile a digerire - quanto ho esposto -, ti offrirò qualche aiuto, ma tu presta attenzione a quanto ti paleso e fissalo nella mente, ‘ché non fa scienza/ senza lo ritenere, avere inteso’”. Questi due versi (uno e mezzo per l’esattezza, in quanto si tratta quasi del secondo emistichio del 41 e dell’intero 42, entrambi endecasillabi a maior) appartengono alle frasi di dante che sono assurte a saggezza e dignità di proverbio.
Continua Beatrice: “Il voto è costituito da una duplice natura: il primo punto consiste nell’oggetto dell’offerta; il secondo è il patto in sé stesso. L’unico modo per cancellare quest’ultimo è l’adempimento; infatti, per gli Ebrei fu stabilito l’obbligo delle offerte quando fu stipulato il patto di alleanza fra Dio e il popolo eletto tramite Mosé”.
Nel Levitico, (XXVII, 1-33), tuttavia, notiamo che l’obbligo delle offerte doveva sì venire rispettato con precisione, ma, in certe particolari situazioni, si poteva permutare la materia dell’oblazione. Non solo. San Tommaso, nella Summa, contempla anche contesti di dispensa totale, dimostrandosi meno rigido di Dante.
Riprendiamo la disquisizione. Chi parla è sempre Beatrice: “L’altro fattore, che per materia ti è aperto, può essere tale che se si converte in altra materia non è peccato, ma nessuno trasmuti il carico sulle sue spalle ad arbitrio proprio senza la decisione della Chiesa, e considera stolta ogni permutanza (è un termine ad hoc che non mi sento di cambiare) che stia a quella abbandonata come il quattro nel sei. Semmai deve essere il contrario”.
L’ammonimento di Beatrice è fermo: il voto non deve essere fatto alla leggera; in più, deve essere contemplato con il senno. Altrimenti accade come a Iefte, giudice ebreo, il quale, avanti di muovere l’esercito contro gli Ammoniti, fece voto a Dio di sacrificargli, se avesse vinto, la prima cosa che, uscendo dalla sua casa, gli fosse venuta incontro. E fu la figlia. Unica e prediletta. La sacrificò per mantenere la promessa, sicché, attuando il voto, avrebbe dovuto dire “Mal feci!”. Ugualmente folle fu l’azione di Agamennone, il quale, per avere i vènti a favore prima di salpare per la guerra, sacrificò agli dei la cosa più bella che possedesse: ed era la figlia Ifigenia.
“Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: /non siate come penna ad ogni vento, / e non crediate ch’ogni acqua vi lavi”: la terzina è polisemantica e non riguarda solo il voto dei cristiani, la prudenza e l’equilibrio mentale in genere. Qui giungono versi d’un’importanza contenutistica esatta e chiara. Gli esempi al negativo si risolvono ora in un’indicazione dichiarativa ferma e incontrovertibile.
“Avete il novo e ‘l vecchio testamento, / e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo vi basti a vostro salvamento”. Il significato è limpido, sebbene sia necessario prenderlo in senso totale, non riferito soltanto al voto, perché altrimenti dovremmo portare unicamente testimonianze vetero-testamentali e dagli “Atti degli Apostoli”. Se l’uomo esprime un voto per avere in cambio, da Dio, beni materiali, come fosse una stipulazione contrattuale di compra-vendita, allora merita l’appellativo di pecora matta e muove al riso beffardo il giudeo, il quale ha un sacro rispetto della promessa fatta a Dio.
Beatrice, dopo aver parlato, si rivolge all’oriente (per alcuni all’Empireo), mutando aspetto e tacendo, sì che il Poeta si frena dal chiedere oltre (quali chiarimenti, non sappiamo).
Il verso 91 è termine del canto V riguardante i problemi dottrinali, e segna il passaggio al secondo cielo, quello di Mercurio (si veda la premessa con la scheda sintetica dei luoghi, delle intelligenze motrici etc.). Ho già detto in precedenza che i canti in sé stessi non sempre sono compiuti in quanto all’azione, ma spesso continuano nel successivo, tanto che si parla di “canti gemelli”, o si spezzano nel medesimo, come accade qui, ad esempio.
Torna l’analogia della saetta che arriva al segno prima che la corda dell’arco si quieti: simbologia della massima velocità possibile – e conosciuta – a quel tempo. Così i due sono nel “secondo regno”. Il pianeta sembrò illuminarsi, tanto che il poeta riflette su questo: io che sono mutabile per natura, figuriamoci come mi cambiai se il luogo immutabile crebbe d’intensità luminosa insieme a Beatrice!
“Come in una peschiera pura e tranquilla i pesci accorrono da ogni parte se si accorgono che c’è qualcosa di nuovo da mangiare, allo stesso modo vidi più di mille splendori farsi verso di noi dicendo ognuno:- Ecco chi accrescerà l’occasione di adoperare la nostra carità-. Pensa, lettore, se io smettessi di narrare, quanto desiderio inappagato ti angoscerebbe; per cui, da solo, comprenderai la mia brama di sapere della loro condizione appena li vidi”. Infatti, uno di quei tanti spiriti invitò Dante a rivolgere loro le domande che aveva in cuore e quelle che erano nate dalla visione. Beatrice lo esorta a interrogare e a credere a loro come fossero essenze divine.
Il Poeta si rivolge alla luce che nascondeva i sembianti della persona, dicendo che vedeva il sorriso luminoso ma non riusciva a conoscerla, né comprendeva le ragioni che l’avevano posta sul pianeta quasi sempre nascosto dallo sfavillare del Sole tanto gli è vicino. La “lumera” si fece più lucente di come era apparsa, e, chiusa nel suo splendore, rispose “nel modo che ‘l seguente canto canta”. Con questa paronomasia, il Poeta chiude e apre al tempo stesso, come continuazione logica e narrativa, due canti: il V e il VI.