GUIDO di MONFORT Inf. XII, 118
Cerchio 7 - girone 1 - Violenti

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L'ombra che sta "da l'un canto sola", è l'anima di Guido di Monfort, figlio del duca Simone di Leicester, che nell'incarico di vicario di Carlo d'Angiò in Toscana, si distinse per crudeltà.
L'episodio che impressionò maggiormente l'opinione pubblica medievale fu quello ricordato da Dante a motivo della condanna nel cerchio dei violenti.

Nel 1272 a Viterbo, Guido uccise, durante la celebrazione della messa ("in grembo a Dio" v.119), Enrico di Cornovaglia, cugino del re d'Inghilterra, per vendicare il padre, il cui cadavere fu trascinato per sfregio nel fango dai nemici vincitori in battaglia. Questo delitto rimase impunito, forse per esplicito intervento di Carlo d'Angiò, ma il colpevole fu isolato dalla vita civile con la scomunica, che lo costrinse a rifugiarsi in Maremma presso il suocero Ildebrandino degli Aldobrandeschi.
Riabilitato, in seguito, dalla scomunica, Guido di Monfort tornò al servizio degli Angiò e morì prigioniero a Messina durante la guerra del Vespro.

L'isolamento ultraterreno di Guido può essere, quindi, il riflesso di più situazioni: da una parte la conseguenza della scomunica, dall'altra l'efferatezza del delitto, poichè Guido "fesse", spaccò il cuore di Enrico di Cornovaglia, azione che, da una parte, gli procura una punizione aggravata dall'assenza di altri compagni di pena, dall'altra, provoca l'orrore e quindi la lontananza, fisica e morale, perfino degli altri violenti.

Il cuore di Enrico di Cornovaglia, poi, "'n su Tamisi ancor si cola"(Inf.XII,120).
Racconta il Villani, nelle "Cronache", che il cuore di Enrico venne messo in una coppa d'oro posta su una colonna del ponte di Londra sul fiume Tamigi.
Gli antichi commentatori, tuttavia, intendono "cola" come una derivazione dal latino "colere", "onorare", mentre la moderna critica lo interpreta come "gronda sangue", immagine forte che evidenzia come tale omicidio, dopo trent'anni, gridava ancora vendetta.