ULISSE e DIOMEDE Inf. XXVI, 56; Inf. XXVII, 1
cit. Inf. XXVI, 62; (greci) Pg. IX, 39; Pg. XIX, 22
Cerchio 8, bolgia 8, Consiglieri di frodi

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Ulisse, figlio di Laerte e di Anticlea, era il re dell'isola di Itaca.
Non volendo partecipare alla guerra di Troia, per non lasciare senza difese il figlioletto Telemaco e la moglie Penelope, si finse pazzo e si diede a seminare sale sulla spiaggia.
Fu costretto, tuttavia, ad abbandonare la finzione quando gli fu posto il piccolo Telemaco davanti all'aratro con cui fendeva le dune.

Durante l'assedio di Troia, Ulisse, si distinse per il coraggio, ma soprattutto per l'astuzia, dono della dea Minerva (Pg.). Fu proprio la sua geniale idea del cavallo di legno pieno di uomini in armi a volgere a favore dei Greci un assedio che sembrava non avere mai fine, ed il successivo trafugamento del Palladio, la statua che garantiva l'imprendibilità di Troia, assicurò ai Greci la vittoria. Già prima della guerra, inoltre, un suo inganno aveva consentito di smascherare Achille, nascosto in abiti femminili alla reggia di Sciro.

Omero, nell'Odissea, narra il suo viaggio di ritorno ad Itaca, la sua patria, che durò dieci anni e fu caratterizzato da esperienze ed incontri straordinari con popoli e divinità ostili.
La cultura del tempo di Dante ignorava la lingua greca. Dante, quindi, non poteva leggere l'Iliade e l'Odissea, ma la figura di Ulisse gli giungeva attraverso la grande fama di lui sopravvissuta nel Medioevo e gli si precisava attraverso notizie e cenni di scrittori latini per lui fondamentali, quali Virgilio, Cicerone, Seneca, Orazio.
Se l'Ulisse mitologico è l'astuto per eccellenza, in Dante il personaggio si arricchisce di introspezione: egli diviene il simbolo della sete di conoscenza che non vuole riconoscere limiti.
Nessuno degli affetti familiari, infatti, "vincer potero ... l'ardore / ... a divenir del mondo esperto". La colpa di Ulisse, dunque, non risiede solo nell'abilità a costruire inganni, ma nell'abuso delle possibilità, pur positive, della ragione ("fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza" Inf. XXVI,119-120).

Già dall'età di Servio, nel IV d.C., le circostanze della morte di Ulisse erano un tema molto dibattuto: Dante ne dà una soluzione che già ai commentatori trecenteschi parve del tutto originale.
L'ardimento ed il desiderio di conoscenza spinsero Ulisse a tentare l'esplorazione dell'Oceano sconosciuto: alle Colonne d'Ercole, limite invalicabile della terra conosciuta, Ulisse fece naufragio e morì insieme agli uomini della sua spedizione. In Ulisse l'umanità è vinta ma non umiliata, il suo naufragio non è una punizione, ma una riaffermazione dei limiti inviolabili posti da Dio all'uomo.

Su un tono minore rimane la presenza muta di Diomede, compagno inseparabile di tante avventure.
Egli era un mitologico eroe greco, figlio di Tideo, re di Argo. Dopo aver partecipato alla guerra degli Epigoni (i discendenti dei Sette di Tebe) contro Tebe, al fianco di Adrasto, fu uno dei protagonisti della guerra di Troia, e compagno di Ulisse in tanti inganni: "e così insieme / a la vendetta (punizione) vanno come a l'ira (il peccato che suscita l'ira divina)" (Inf. XXVI,56-57).